5 maggio 2021 Alluvione di Sarno e Quindici. 23 anni, cosa è cambiato?
Il CNSBII una forza civica indispensabile per il territorio
di MICHELE BUSCE’ Giornalista e Coordinatore Nazionale del CNSBII
Il CNSBII – Corpo Civico Nazionale delle Sentinelle dei Bacini Idrografici Italiani ha deciso di dedicare una pubblicazione all’evento calamitoso avvenuto il 5 maggio del 1998 sui versanti montuosi dei Monti del Sarno.
Gli eventi franosi possono dividersi in fenomeni che hanno un’origine naturale e in fenomeni che possono generarsi da fattori non naturali. Tra i fattori non naturali, ci sono quelli generati dall’uomo che ha influito fortemente su alcuni cambiamenti generando gravi conseguenze, infatti, nel corso dei secoli egli ha avviato una gestione della selvicoltura e delle colture di montagna sui versanti montuosi, ai fini della sopravvivenza e sostentamento, generando solide economie cambiando però le origini naturali dei luoghi.
L’alluvione di Sarno e Quindici, o frana di Sarno, è stato un movimento franoso di vaste dimensioni che, tra il 5 e il 6 maggio 1998, colpì, in particolare, le aree urbane campane di Sarno (SA), Quindici (AV), Siano (SA), Bracigliano (SA) e San Felice a Cancello (CE), causando la morte di 160 persone.
Da quel momento la popolazione che lavorava in montagna decise di stanziarsi gradualmente, guarda caso, proprio a ridosso dei luoghi di lavoro e nei luoghi che ad oggi sono classificati tra i più pericolosi, pagando sulla propria pelle e anche a danno delle sue proprietà, le infauste scelte di voler avere a due passi, con tutte le comodità possibili, sia il lavoro che la casa. Nella maggioranza dei casi, nel corso dei secoli è andato tutto bene, ma si sapeva che sarebbe bastato un singolo episodio calamitoso per causare danni ingenti e per spazzare via persone e cose.
L’uomo di qualche secolo fa, pur subendo gli errori delle proprie scelte, era un uomo che ricordava bene e non dimenticava gli eventi calamitosi che si verificavano nelle aree a rischio e attivava di concerto con le amministrazioni locali (al tempo identificati in contesti di Regno) tutta una serie di attività di prevenzione che ne limitavano i futuri danni. Giacché viveva la montagna per lavoro, egli, si dedicava anche alla manutenzione, alleggerendola di biomassa, liberando i torrenti montani da sedimenti e materiale legnoso che sarebbero potuti venir giù tramite eventi meteorologici intensi.
Nel mese di maggio 1998, l’area del comprensorio di Sarno fu colpita da un eccezionale evento piovoso, e nell’arco di 72 ore caddero oltre 240/300 millimetri di pioggia. Tale evento causò la dissoluzione della continuità tra calcare e piroclasti, e provocò lo scivolamento catastrofico di questi ultimi sul primo (si trattò di un vero e proprio lahara).
aIl lahar è una colata di fango composta di materiale piroclastico e acqua che scorre lungo le pendici di un vulcano, specialmente lungo il solco di una valle fluviale. Il termine lahar proviene dall’Indonesia e significa lava in lingua giavanese.
E’ chiaro che laddove vi è la presenza di persone, animali di allevamento e cose, nasce il rischio e quindi l’uomo ha avviato delle opere, alcune palesemente discutibili, di mitigazione dal rischio.
Man mano che l’urbanizzazione aumentava togliendo suolo permeabile, l’uomo cercava di limitare il danno cercando di prevenire il rischio idrogeologico e idraulico a favore dei nuclei abitativi posti ai piedi dei monti. Ad oggi e da decine di anni a questa parte, si è deciso di non investire più denaro sui monti al fine di fare la dovuta prevenzione dal danno che sappiamo prima o poi si (ri)verificherà. L’incuria, l’abbandono, la mancata sorveglianza e manutenzione, hanno portato l’assenza del controllo e i “briganti” della montagna ne hanno fatto e ne fanno ancora, un po’ quel che vogliono. I monti del Bacino Idrografico del Fiume Sarno ogni anno subiscono grossi incendi e disboscamenti abusivi e non controllati ed il tutto, ricade sempre a danno dei versanti che si ritrovano i nuclei abitativi nella zona pedemontana. Altri importanti e non controllati fenomeni sono le colture non autorizzate e alloctone a quel tipo di area montana e quindi ci troviamo finanche piantagioni come quelle di castagno, banane, kiwi, agrumi, vigneti e uliveti, su aree che dovrebbero essere a prevalenza di varietà arboree come Faggi, Querce, Frassini, Tigli, Pioppi, Aceri, Ontani, Carpino Nero.
Il destino della montagna di Sarno è nelle mani dei contadini e delle nuove generazioni
di ENNIO MOLISSE, Dottore in ingegneria Edile-Architettura
5 maggio 2021. Sono ormai trascorsi 23 anni dai tragici eventi del 1998.
Tanto è stato fatto in questo lasso temporale e tanto resta ancora da fare. Ma se sulla modalità di gestione dell’emergenza, sulla nascita di un “Modello Sarno”, sulle opere di mitigazione del rischio realizzate, sui sistemi di monitoraggio e di allertamento messi a punto, sul problema delle opere ancora incomplete e della difficoltosa manutenzione si è ampiamente discusso e ancora si discute, una domanda resta ancora sospesa nell’aria “cosa vuol farsene Sarno della propria montagna?”.
Secondo quanto riportato da alcune fonti, solamente dieci ore dopo l’accaduto l’assessore all’ambiente della Regione Campania Angelo Grillo inviò ai sindaci della zona un fax in cui si prevedeva la possibilità di eventi catastrofici:
Nei secoli passati essa costituiva una considerevole fonte di sostentamento per i suoi abitanti. Oltre alla coltivazione dei vigneti, degli oliveti, dei frutteti e successivamente dei noccioleti, rilevanza strategica rivestiva la gestione dei boschi di querce e castagni1 da cui si ricavava: legna per cucinare e riscaldarsi; legname per costruzioni, infissi, mobili, botti e utensili vari; pali per vigneti, frutteti, recinzioni e linee aeree; fascine per la cottura del pane; carboni; fieno per gli animali; funghi ed erbe spontanee.
Un’ampia porzione del patrimonio boschivo era di proprietà del Comune che la gestiva in proprio o ne concedeva in affitto alcune aree ai privati, nel rispetto però di tutta una serie di prescrizioni circa l’esecuzione del taglio, le modalità di trasporto della legna, la produzione di carboni, il pascolo degli animali e la custodia del fondo; gli usi civici permettevano comunque a tutti i cittadini di Sarno di raccogliere nei terreni demaniali “le legne secche, i pampini, le castagne, le ginestre, i scoccapignati, i livorni e il frascame”2.
Importante era il lavoro dei guardaboschi comunali che percorrevano la montagna monitorando lo stato dei luoghi e la regolarità del taglio: non si potevano tagliare gli alberi appositamente marchiati dagli agenti forestali, in modo tale da garantire sempre una gestione sostenibile del bosco3.
1 V. Cimmelli, Sarno nell’età moderna, Centro Ricerche e Documentazione Valle Del Sarno, Sarno, 1991.
2 G. Mazza, E. Amendola, Storia Liquida. Alluvioni e sistemazione idraulico-montana a Sarno dalla fine del ‘700 agli inizi del ‘900, Scala Editrice, 1999.
3 Ibidem.
Negli anni ’80 è iniziato però per la montagna di Sarno il lento declino delle attività agricole e selvicolturali. Il crollo del mercato del legno ha segnato l’abbandono definitivo del bosco, mentre le cause che stanno caratterizzando la crisi dell’agricoltura possono essere così sintetizzate: limitato guadagno, eccessiva parcellizzazione dei fondi, scarsa innovazione tecnologica, mancato ricambio generazionale ed eredi dei fondi spesso completamente disinteressati. E, con la fine delle attività agricole e selvicolturali, della vecchia gestione della montagna restano esclusivamente le problematiche legate al dissesto idrogeologico, agli incendi boschivi e alla mancata manutenzione.
La montagna, insomma, da risorsa è diventata una minaccia che grava costantemente sulla città di Sarno o meglio un’incombenza di cui non è semplice farsi carico.
Passando ora alla situazione attuale, è innegabile che il contrasto al dissesto idrogeologico si attui anche attraverso efficaci e innovativi sistemi di monitoraggio, vista anche la disponibilità di nuovi e più potenti strumenti di controllo, ma pensare di definire un’immaginaria “linea di trincea” tra il centro abitato di Sarno e la montagna alle sue spalle, difesa e protetta da un esercito di agenti forestali e tecnici armati di pluviometri e termocamere, sembra uno scenario ai limiti della fantascienza.
L’abbandono della montagna ha portato senza dubbio ad una riduzione significativa della pressione antropica sulle risorse naturali e in modo particolare sulle aree boschive ma la presenza dell’uomo in queste aree ha avuto nei secoli anche i suoi effetti positivi: basti pensare alle sistemazioni idraulico- agrarie, alla manutenzione costante del bosco, delle strade e dei sentieri, alla salvaguardia del paesaggio e soprattutto al presidio del territorio, costituito dai contadini e dalle comunità rurali.
Il contadino, che coltiva e custodisce il proprio appezzamento di terreno giorno dopo giorno con particolare attenzione a tutto quanto avviene intorno a lui, ha da sempre rappresentato l’unica vera “sentinella del territorio”.
Le attività agricole e selvicolturali e il presidio costituito dai contadini diventano quindi un importante strumento di contrasto al dissesto idrogeologico e di tutela e salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, configurandosi non più come semplici attività economiche ma come un “servizio di pubblica utilità”. Bisogna pertanto individuare ogni forma di incentivazione che renda queste attività economicamente vantaggiose e preferibili, ad esempio, a sistemi intensivi e ad elevati livelli di meccanizzazione, cui è possibile ricorrere in altre aree, soprattutto quelle pianeggianti.
Ovviamente il ritorno dei contadini in montagna dovrà discostarsi completamente dalle vecchie logiche di sfruttamento sfrenato e intensivo. Il contadino del futuro dovrà partire dalla consapevolezza che il territorio in cui andrà ad insediarsi è un territorio estremamente fragile, di cui egli rappresenterà il vero custode, e in tutto questo giocheranno un ruolo significativo le nuove generazioni di agricoltori, o meglio di imprenditori agricoli, con una formazione specifica e competenze sempre più avanzate e multidisciplinari.
Sarno e le nuove generazioni hanno necessariamente bisogno della propria montagna, in quanto ritornare in montagna, oltre che salvaguardare la vita di chi abita a valle o produrre olio, vino, legna, significa riscoprire sé stessi, la propria storia, le proprie origini, le proprie radici, insomma la propria identità.
La memoria dell’acqua
di ELENA AMENDOLA, Dottore in Fisica
Il territorio compreso nel bacino idrografico del fiume Sarno, per le specificità e le caratteristiche geomorfologiche dei luoghi, è stato da sempre caratterizzato da un’estrema vulnerabilità idrogeologica. Come attestano fonti storiche, librarie ed archivistiche, le città che soggiacciono al massiccio del Monte Alvano, sin dalle origini, furono soggette agli interramenti causati dai materiali trasportati dalle piogge durante le alluvioni, esattamente come accadde la notte del 5 maggio del 1998, quando impressionanti colate rapide di fango si abbatterono tragicamente sui centri abitati dei comuni di Sarno, Siano, Quindici, Bracigliano e S. Felice a Cancello.
Accanto ai grandi eventi catastrofici, che hanno avuto maggiore risonanza nella storia ambientale del bacino superiore del Sarno, c’è un continuum di eventi periodici minori, che nel tempo hanno condizionato lo sviluppo economico, la vita e i comportamenti degli abitanti, costretti ad abbandonare le loro case di notte per non restare sepolti sotto le pietre, a tuffarsi d’inverno nelle acque gelide per raggiungere i luoghi di lavoro o a traslocare definitivamente quando la natura si riappropriava dei suoi spazi. Dal 1998 – nel tempo che il mio lavoro mi concede – ho continuato a studiare la situazione fisica, topografica ed economica dal punto di vista storico ambientale del bacino superiore del Sarno, inseguendone, in tutte le direzioni, le trame evolutive che hanno condotto agli attuali assetti. I miei studi sono frutto delle veglie, come scriveva Afan De Rivera, Direttore Generale di Ponti e Strade del Regno delle Due Sicilie, profondo conoscitore del dissesto idrogeologico del territorio.
Innumerevoli sono i tecnici e gli scienziati del XIX secolo, come il De Rivera, i quali, perfettamente consapevoli di ciò che si ripeteva costantemente ogni anno durante le stagioni delle piogge, approfondirono lo studio delle cause dei disastri, evidenziando quelle segnatamente correlate a fattori antropici e indagando le possibili soluzioni per una gestione del territorio adeguata alle peculiarità della nostra area.
Tutti i paesi situati alle falde dei monti e sottostanti a molti valloni, sono spesso soggetti agli alluvioni, cagionati per la gran copia delle acque, che in tempo delle dirotte piogge, non potendo queste essere contenute negli alvei corrispondenti, devono forzosamente sormontarli e deviarsi, aprendosi dei passaggi, ove si presenta una minore resistenza e un facile pendio. I nostri monti ricoperti dal materiale piroclastico proveniente dalle eruzioni del Vesuvio, connotati da una pendenza elevata, sono solcati da innumerevoli valloni, che per assolvere alla funzione, che la natura ha loro assegnato, di indirizzare le acque verso il recipiente principale, generano improvvisi e spaventosi torrenti che periodicamente portano devastazione nelle località maggiormente esposte al rischio idrogeologico.
Dunque, l’attività del Vesuvio è un elemento determinante nel modo in cui si manifesta il fenomeno naturale alluvionale. Durante le eruzioni, enormi quantità di ceneri, lapilli e piroclastiti, materiali incoerenti ad elevata permeabilità, si depositavano sui luoghi circostanti, per poi precipitare improvvisamente e drammaticamente, da monti e colline giu’ a valle, anche con piogge non particolarmente intense. Rapide e veloci le colate di fango corrono, trasportando enormi quantità di materiali. Con violenza sradicano, abbattono qualunque cosa gli si pari davanti, e senza neppure tanta pioggia in pianura, le acque strepitose allagano come a tradimento, scrive un testimone oculare della alluvione del 1794, della famiglia Calcabale di San Felice a Cancello, il quale lasciò scritto che, per replicate esperienze e fisiche ragioni, dopo piogge di cenere bisognava aspettarsi sempre precipitosissime piogge d’acque. Durante tutto l’Ottocento, le eruzioni si intensificarono, alimentando ed aumentando la copertura piroclastica sulle catene montuose che circondano il vulcano, con conseguenze disastrose sull’assetto territoriale. Così la Valle del Sarno con i suoi abitanti fu flagellata da eruzioni parossistiche, terremoti, alluvioni, venti impetuosi, torrenti che si precipitavano furiosi nei centri abitati, colate rapide di fango, esondazioni ricorrenti che impaludavano vaste aree, con un clima localmente influenzato dall’attività eruttiva del vulcano.
La storia-ambientale della Valle, certamente, non ha potuto progredire in maniera lineare e il rapporto dei suoi abitanti con la natura, molto probabilmente, non è mai stato armonicamente in equilibrio, piuttosto appare come una continua e incessante lotta impari che ha avuto un elevato prezzo in termini di vite umane e ripercussioni economiche pesantissime.
Ed è proprio tra il secolo XVIII e il XIX, che questo rapporto dell’uomo con la natura si incrina definitivamente e irreparabilmente – gettando le basi dell’attuale e più moderno dissesto idrogeologico – ma allo stesso tempo si sviluppano e si sperimentano le politiche di tutela ambientale più all’avanguardia, implementando e migliorando le tecniche di costruzione delle opere di difesa idraulica e di bonifica dei terreni.
Intanto, nel bacino del Sarno, il degrado ambientale si aggravò da monte a valle, per una serie di cause concomitanti derivanti dalle attività antropiche e dall’incremento demografico. Riconoscendo che i gravissimi disordini del bacino superiore del Sarno influiscono enormemente su quello inferiore, tre grandi tecnici del Regno delle Due Sicilie, De Rivera, Visconti e Degli Uberti, riuniti nella Commissione per le Acque del Sarno, istituita da SM Ferdinando II con il Real Rescritto del 1843, rilevarono le cause più strettamente legate ai fattori antropici che aggravavano le devastazioni: disordine delle acque superflue, mancato espurgo dei fossi, insano e selvaggio disboscamento – dovuto in buona parte agli usi civici a legnare – , incendi, dissodazioni e riduzione a coltura delle terre in pendio, restringimento degli alvei dei torrenti ad opera dei proprietari dei fondi limitrofi, costruzione di muri o argini da parte di privati proprietari nella cieca difesa degli interessi personali, presenza dei maceratoi del lino e della canapa e, non ultima, la costruzione delle parate sul fiume, innalzate per incrementare l’industria molitoria.
Dunque, era chiaro che se il fenomeno naturale delle colate rapide di fango era di per sé disastroso, la cattiva interazione dell’uomo con la natura lo rendeva tragicamente letale. Si delineò, allora, la responsabilità, riconducibile a fattori antropici, della evoluzione di un evento estremo naturale in una catastrofe innaturale, determinata dallo sviluppo e dal progresso umano e, di conseguenza, si moltiplicarono gli studi sulla salvaguardia ambientale, in particolare sulla necessità di rendere salde e boscose le pendici dei monti, con la distinzione delle piante da utilizzare nelle varie fasce di altitudine, tenendo presente che, in un contesto territoriale di estrema fragilità, gli effetti disastrosi delle alluvioni sono aggravati dal disboscamento, che non ne costituisce causa determinante.
La stessa Commissione per le Acque del Sarno non esitò a sottolineare che tra le più importanti opere di bonifica, vi sono quelle dirette a rimuovere le cause che producono devastazioni e, con una lungimiranza che non avrà seguito nella storia della nostra Valle, chiese l’applicazione di un rigido regolamento per le montagne che coronano il bacino del Sarno e la creazione di una commissione con il compito di vigilare su ogni eventuale abuso. Severe disposizioni limitavano le trasgressioni, regolando l’uso del suolo e dei suoi prodotti; le tecniche e i materiali adoperati nella costruzione delle opere di difesa idraulica, si integravano col paesaggio naturale. Briglie, muri di contenimento e catene di fabbrica, interventi di manutenzione ordinaria per frenare e arginare le acque, vasche e canali per convogliare, imbrigliare le acque e per bonificare i terreni, testimoniano ancora oggi la determinata volontà dell’uomo a voler a tutti i costi dominare e controllare una natura fragile ma indomita.
Opere di difesa, impatti ambientali e strategie di mitigazione del rischio
Nel XX secolo, le opere di bonifica del bacino superiore del Sarno, la lunga stasi del Vesuvio, iniziata dopo l’ultima eruzione del 1944, e il progresso tecnologico hanno per molto tempo tutelato il nostro territorio, garantendo la sicurezza e consentendo lo sviluppo dell’agricoltura.
In poco più di cinquanta anni, strade, fiumi e torrenti si confondono le une negli altri, intrecciando i reticoli. A mano a mano che si prosciugano e arginano le acque, i luoghi cambiano nome comune e, di conseguenza, mutano classe di appartenenza nella tassonomia degli elementi geo-topografici che descrivono: i torrenti solo valloni, alvei-strada semplicemente strade. La memoria collettiva si modifica insieme alla geomorfologia dei luoghi, di generazione in generazione, e questo processo di rimozione della parte liquida della storia ambientale, è coadiuvato dalla natura stessa che si mostra più benevola e meno matrigna. Ma l’apparente stabilità assunta dai luoghi non poteva cancellare la memoria dell’acqua che, la notte del 5 maggio 1998, ci ha trascinati indietro nel nostro passato di fango, trovandoci, però, a differenza dei nostri avi, completamente impreparati.
Dal secondo dopoguerra, ai fattori antropici evidenziati nel corso dei secoli precedenti, si sono aggiunte nuove concause che, nel 1998, hanno contribuito ad amplificare la potenza distruttiva delle colate rapide di fango, nonostante l’inattività del Vesuvio.
Per negligenza, per scellerata ignoranza o per un malinteso processo di urbanizzazione, lo sviluppo edilizio spregiudicato, tralasciando vincoli e divieti e violando ogni norma di tutela ambientale, e l’incuria colpevole dei dispositivi di sicurezza, hanno trasformato profondamente il territorio: torrenti e canalizzazioni ostruiti, vasche colmate trasformate in discariche illegali, anche quelle nei centri urbani, diboscamento, incendi ricorrenti, sostituzioni inadatte della copertura vegetale e riduzione a colture delle terre in pendio. Si è ostacolato con ogni mezzo la via alle acque, ma gli ostacoli costituiti dai nuovi insediamenti abitativi incontrati durante la corsa a valle delle colate di fango, non hanno impedito all’acqua di ricordare gli antichi tracciati.
A distanza di 23 anni dall’alluvione del 1998, attraversando parte della città di Sarno, salendo dal cimitero verso Episcopio e ricordando come erano quei luoghi prima, balza alla vista lo stravolgimento topografico: nuove strade, nuovi agglomerati urbani. L’impressione è che il fango abbia dato l’opportunità di strappare nuovi spazi alla natura. Non si può fermare il progresso, ma neppure si può impedire all’intero territorio di assolvere alla funzione fondamentale, che la natura gli ha assegnato, quella cioè di avviare le acque verso il recipiente principale: il fiume Sarno. E la memoria dell’acqua non si può cancellare, scolpisce nella pietra il ricordo dei luoghi che ha attraversato; scava solchi indelebili, che diventano valloni, si colmano, si profondano, trasformandosi tragicamente in burroni.
Possiamo garantire la sicurezza, alla nostra e alle generazioni future, imponendo i divieti, definendo i limiti e le condizioni per un uso regolato del territorio, perché non si costruiscano case dove non si deve, e punendo severamente i trasgressori. In particolar modo, è necessario applicare un rigido regolamento per le montagne che coronano il bacino del Sarno, con l’obiettivo di rendere salde le pendici dei monti e boscose, laddove è possibile, individuando le piante da utilizzare nelle diverse fasce di altitudine, e soprattutto, vigilando costantemente su ogni reato.